Cristina Annino - Melanconia Animale
Postfazione di Cristina Annino

a Melanconia Animale
di Piera Mattei
Manni 2008


Tutto ciò che guardiamo, lo guardiamo con l'intenzione di vederci qualcosa; questo è ovvio e lo è anche in letteratura, perciò non è proprio corretto parlare di una teoria autonoma dello sguardo, essendo questo inalienabile dall'essenza stessa dell'autore. Se però da strumento esso diventa protagonista, ecco che scatta una specie di modus operandi interessante nella misura della sua ripetibilità. Nelle precedenti raccolte di Piera Mattei, in particolare in Umori regali, essendo lo Sguardo, ad agire autonomamente, le più svariate situazioni, viste anche da angolature diverse, assumevano quasi lo stesso tono, perché il metodo di indagine del soggetto riduceva tutte le cose del mondo a se stesso. In uno stile indubbiamente alto, si era andata dunque gradatamente perfezionando una terza realtà, oltre quella del reale e dell'autore, con connotati, regolamenti e soluzioni assolutamente originali. In quel caso l'Autrice aveva elaborato, si può dire, una sua vera e propria teoria dello sguardo.

Nell'ultimo lavoro invece, lo Sguardo si normalizza, diciamo che da agente diventa agito, lasciando così spazio alla passione. Insisto per spiegarmi meglio: nelle raccolte anteriori, l'Autrice ci dava una realtà figlia del suo personaggio il quale, via via sovrapponeva al reale definizioni di codificata estraneazione che aggiungevano al reale connotati non sempre identificabili, per il lettore. Allo stesso modo in cui può farlo (ammesso sia possibile mettere a confronto categorie espressive tanto diverse) un'opera pittorica surrealista di grande livello, certo; non discuto il merito degli altri lavori di Mattei che mi son sempre sembrati eccellenti. Mi sento però di affermare che si possa, con eguale qualità, passare da René Magritte ad Hopper, per esempio, e rendere, per specularità intendo, il risultato, concettuale e creativo, molto più vicino di quel che si creda; differiranno solo i "significanti". Ammesso che si possano contaminare due categorie espressive così differenti.

Gli scritti precedenti potevano produrre avvicinamento o allontanamento da quel che lei narrava, su basi comunque non di autentica discussione. Quelle rappresentazioni erano "indiscutibili". Si poteva parlare di affezione o simpatia , godimento per la bellezza di ciò che si leggeva, ma la passione, si sa, è sempre "discutibile", o per lo meno dovrebbe esserlo. In Attraversamenti, il personaggio Sguardo si è ricongiunto all'Autrice diventando il riflesso di un Umano certo più complessivo: è per questo che mi sento di parlare di ingresso della passione. Al reale viene restituita la propria realtà, e tutto torna, in tal senso, a un ordine condivisibile delle cose. Si passa dall'eversività, intransigenza o pura fantasia, a pathos come intervento, interesse e coinvolgimento del lettore con l'artista. A mio avviso Mattei guadagna così maggiore e più personale originalità, scoprendo, in definitiva, l'estrema bizzaria convivente anche con la "normalità" del reale. Basta saperla vedere, e lei ci riesce. Ritroviamo intatta quella freschezza del suo tono narrativo che a volte dà l'impressione di non averle neppure raccontate lei quelle cose, quasi ironicamente rifiutasse l'importanza della loro comparsa sulla pagina. Ritroviamo tutta l'agilità di una lingua volutamente semplice, coltamente semplice, e forte, per assemblaggi lessicali, dove la forza viene appoggiata su vocaboli di vistosità zero. Abilità che solo un più che notevole addestramento linguistico può realizzare. Comunque, sempre in quel suo modo originale da "fuori campo" direi, ora è lei che guarda, con quello Sguardo spropositato rimesso dentro di sé, ma per fortuna guarda anche per noi.

Si ha l'idea che l'Autrice faccia tutto col suo sguardo-pilota: crea spazialità, ci si muove dentro trovando il proprio equilibrio, reagisce a situazioni, luoghi, persone, ascoltando e guardando tutto con una sicurezza di assestamento più solido. Ironica quasi sempre, più su del contesto in cui si trova, ma con intelligente semplicità; le sue valutazioni sottese sono stimolanti; è come se avesse le varie parti della terra, in una mano, e nell'altra gli organi dell'udito e della vista ridotti a lente di ingrandimento. Non giudicante ma divertita, il più delle volte, e con quella leggera "afasia" che da sempre accompagna la sua scrittura. Tant'è che l'operosità di tale sguardo richiama, per contrasto, la capacità cinetica del non vedente. Mattei infatti sembra illuminare il percorso di un suo immaginario handicap, con tutta la sinergia che ha dovuto tirar fuori da sé per poter capire l'esterno. Continuando nel paradosso, se pensiamo a un individuo cieco e cerchiamo di interpretarne il metodo di sopravvivenza motoria, possiamo immaginare che questo si basi principalmente su tre cognizioni: quella di pieno, di vuoto e di perfezione. Cioè il proprio corpo, l'esterno e l'esattezza matematica che gli permette di coordinare i primi due. Vale a dire che l'Ordine è essenziale.
Traducendo ciò in narrazione, abbiamo lo scheletro portante dei racconti di Mattei.

L'andamento costruttivo della maggior parte di essi, dove il taglio vagamente favolistico sembra tendere a un abbassamento di focalizzazione su quel che narra (per esperta strategia direi, perché ne esce l'effetto contrario), si muove cautamente in un vuoto, illuminando via via l'ipotetico corridoio dove si disvelano pieni, cioè persone, cose, avvenimenti importanti, e anche piccoli ma pur sempre significativi. Ordinatamente, disinvoltamente, senza rendersene conto forse, essa ricompone delle gerarchie. Tutto ciò che il lettore aveva insomma messo dentro la propria distrazione, che non guardava perché aveva sottovalutato, o per l'ansia di voler vedere troppo, e quindi sommariamente, nel modo massificato che soprattutto oggi prevale. Lo sguardo di Mattei è invece aderente al proprio corpo che teme giustamente la "piazza", quale luogo di sdefinizione per affollamento anche di parole e comportamenti obsoleti: cioè il vuoto costruito dagli uomini. Potremmo pensare a una Mattei presocratica, se volessimo tentare una definizione che forse lei stessa non condividerebbe; una Piera sdegnosa verso tutto quel che non sta in pensieri superiori, e che modera lo sdegno volutamente con l'arma più tenue di cui dispone, cioè con un'ironia affettuosa. Così come nelle raccolte precedenti, la sua "afasia" colta l'aveva portata alla costruzione di una realtà alternativa nascosta o solo sua e quasi invisibile al resto degli uomini.

Mi sembra importante precisare che la qualità di scrittura e ciò che essa comporta in quanto a pathos e compromissione nostra di lettori, resti invariata dai libri precedenti. Lo dimostra il fatto che il racconto Un'invenzione pedagogica già comparso nel volume Umori regali, ci ripropone qui tanta compressione di significati, offerti però con levità di stile pur nella sofferta consapevolezza di sé e del mondo, con una intensità pietosa e magistrale quale solo può dare certa musica. Ancora un appunto: da sempre, ma in queste pagine – soprattutto per quel che ho detto prima – Mattei muove il proprio sguardo col metodo dell'ordine tangenziale, direi insomma che ha una struttura matematica dello sguardo, proprio perchè, giustamente, al contrario di tanti, troppi autori, lei parte dalla sottrazione di ego.

Cristina Annino


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